Vi pubblico un estratto del libro che ho letto in questi giorni, un romanzo che parla del rapporto tra due sorelle già adulte. Credo che questo pezzo sarà apprezzato dalle persone che, come me, amano la tela e tutto il mondo che gli gira intorno.
Accesi la lampada fluorescente nel mio studio e mi guardai intorno. Già pregustavo il piacere... C'era la mia macchina, pulita da poco, oliata e pronta per funzionare, che si trasformava adesso in un dito metallico che mi faceva cenno di avvicinarmi. C'erano i miei taglierini a rotella, allineati in ordine di grandezza. C'era il montante di legno a livelli multipli con tutti i miei rocchetti di filo, più di cento tonalità diverse, ordinati per colore e per tipo: di cotone, metallici, di seta, sintetici, da trapunta. Avevo cassetti pieni di articoli da cucito: aghi, ditali, spilli e spille di sicurezza, bottoni, automatici di tutte le misure, metri a nastro e righelli, schegge sottili di sapone che usavo per segnare le trapunte, forbici da ricamo, cesoie da quindici, da venti e da venticinque centimetri, un paio di forbici da rifinitura in argento massiccio, nastri da orlo e scuci-orli, metri di elastici e velcro. Avevo scaffali pieni di libri sui tessuti, sui bottoni, sui disegni dei tessuti, su ogni tipo di trapunta, da quelle antiche degli Amish a quelle contemporanee, sulle tecniche di impuntura a mano, a macchina e sashiko. Avevo anche dei volumi di poesie che qualche volta leggevo per trarne indirettamente ispirazione. Avevo i ricalchi dei miei disegni ritagliati su carta abrasiva e accuratamente archiviati in buste di carta di Manila, infinite varietà di perline e lustrini, filati e fili da ricamo, colore per tessuti, nappe e guarnizioni. Avevo dime in carta millimetrata e in plastica a forma di quadrati, triangoli e semicerchi.
E stoffa! Grossi cesti quadrati di vimini allineati su profondi scaffali a parete pieni di pezze di cotone a tinta unita o stampate, sete, batik, tessuti in lana, misti... ne avevo un po' di tutti i tipi. Una delle tante ragioni per cui mi piaceva andare nei magazzini di tessuti era il sentirmi circondata da gente che aveva la mia stessa malattia benigna. Una volta, mentre aspettavo in coda per pagare una bella selezione di tessuti a fiorellini in miniatura, avevo sentito la donna davanti a me che diceva: «Devo correre a casa a nascondere tutto. Se mio marito scopre che porto a casa altro tessuto mi ammazza ». « Oh, la capisco », aveva replicato la donna con cui parlava. «Ho nascosto la mia roba per anni. Provi a portarla a casa in un sacchetto del super-mercato. Se poi ci butta sopra una confezione di assorbenti, suo marito non si avvicinerà nemmeno. » Mentre parlava, reggeva con le braccia una pila di tessuti talmente enorme che riusciva a malapena a guardare al di sopra. Quando il commesso che le batteva il conto le domandò che cosa se ne facesse, la donna rispose senza alcuna ironia: «Niente». Sorrisi alla donna dietro di me, che alzò le spalle e sentenziò: « Sa come dicono, chi muore con più stoffa vince ».
Ogni tanto, qualche ospite venuto a cena da noi chiedeva di vedere il mio studio. Si trattava quasi sempre di donne, benché talvolta anche gli uomini volessero visitarlo, e qualunque fosse la loro professione, rimanevano immobili in atteggiamento di apprezzamento stupito (gli uomini con le mani in tasca), e in genere dicevano soltanto: Uau! Che amassero cucire o no, semplicemente apprezzavano la vista di una stanza così ben fornita, che rispecchiava tanto fedelmente la passione di una persona. È un po' come per i negozi di ferramenta. Che si sappia o no che cosa sono le merci esposte, sono tutte lì.
Sul piano di lavoro ricoperto di flanella, alcuni fazzoletti vintage erano sistemati en pointe, un'idea per una trapunta ancora da realizzare. Avevo raccolto quei fazzoletti per anni. Vi erano registrate sopra delicate tracce di storia della società: motivi floreali degli anni Venti e Trenta, fazzoletti coordinati per signora e per uomini degli anni Quaranta, motivi bizzarri di tostapane fluttuanti e cagnolini scozzesi degli anni Cinquanta. C'erano disegni di foglie per l'autunno, renne e bastoncini di zucchero per Natale, cuori di velluto imbottito per San Valentino, ricami bianco su bianco con orlo largo in merletto per i matrimoni. In un angolo di un fazzoletto rosso scuro era ricamata la parola rossetto. Il mio preferito era uno dei più antichi, azzurro con il ricamo di un mazzolino di violette...non pensavo certo di usarlo, mi bastava guardarlo. Gli innumerevoli lavaggi, le stirature, le piegature, l'uso e le lacrime avevano consumato quei fazzoletti tanto da renderli soffici come polvere. Qualche volta prendevo in grembo la vecchia cappelliera nella quale li tenevo e semplicemente li scorrevo uno a uno, cercando di sentirne i ricordi.
Ero ansiosa di incominciare quella trapunta di fazzoletti, ma prima dovevo finire quella che mi era stata ordinata. Avrei montato i bordi, vi avrei ricamato delle perline sparse, e l'avrei foderata, orlata e impunturata a macchina quel giorno stesso. La mattina seguente, mentre andavo a prendere mia madre all'aeroporto, l'avrei spedita nel solito modo, avvolta in una custodia foderata in seta fatta con gli scampoli dei tessuti usati per la trapunta. I clienti andavano pazzi per quelle custodie. Per alcuni, era il piacere istintivo del ricevere un dono inaspettato. Ma probabilmente era anche la sorpresa di constatare che c'era ancora qualcuno disposto a fare qualcosa in più oltre al dovuto, senza aumentare il prezzo. II telefono squillò. Lo lasciai suonare…
Accesi la lampada fluorescente nel mio studio e mi guardai intorno. Già pregustavo il piacere... C'era la mia macchina, pulita da poco, oliata e pronta per funzionare, che si trasformava adesso in un dito metallico che mi faceva cenno di avvicinarmi. C'erano i miei taglierini a rotella, allineati in ordine di grandezza. C'era il montante di legno a livelli multipli con tutti i miei rocchetti di filo, più di cento tonalità diverse, ordinati per colore e per tipo: di cotone, metallici, di seta, sintetici, da trapunta. Avevo cassetti pieni di articoli da cucito: aghi, ditali, spilli e spille di sicurezza, bottoni, automatici di tutte le misure, metri a nastro e righelli, schegge sottili di sapone che usavo per segnare le trapunte, forbici da ricamo, cesoie da quindici, da venti e da venticinque centimetri, un paio di forbici da rifinitura in argento massiccio, nastri da orlo e scuci-orli, metri di elastici e velcro. Avevo scaffali pieni di libri sui tessuti, sui bottoni, sui disegni dei tessuti, su ogni tipo di trapunta, da quelle antiche degli Amish a quelle contemporanee, sulle tecniche di impuntura a mano, a macchina e sashiko. Avevo anche dei volumi di poesie che qualche volta leggevo per trarne indirettamente ispirazione. Avevo i ricalchi dei miei disegni ritagliati su carta abrasiva e accuratamente archiviati in buste di carta di Manila, infinite varietà di perline e lustrini, filati e fili da ricamo, colore per tessuti, nappe e guarnizioni. Avevo dime in carta millimetrata e in plastica a forma di quadrati, triangoli e semicerchi.
E stoffa! Grossi cesti quadrati di vimini allineati su profondi scaffali a parete pieni di pezze di cotone a tinta unita o stampate, sete, batik, tessuti in lana, misti... ne avevo un po' di tutti i tipi. Una delle tante ragioni per cui mi piaceva andare nei magazzini di tessuti era il sentirmi circondata da gente che aveva la mia stessa malattia benigna. Una volta, mentre aspettavo in coda per pagare una bella selezione di tessuti a fiorellini in miniatura, avevo sentito la donna davanti a me che diceva: «Devo correre a casa a nascondere tutto. Se mio marito scopre che porto a casa altro tessuto mi ammazza ». « Oh, la capisco », aveva replicato la donna con cui parlava. «Ho nascosto la mia roba per anni. Provi a portarla a casa in un sacchetto del super-mercato. Se poi ci butta sopra una confezione di assorbenti, suo marito non si avvicinerà nemmeno. » Mentre parlava, reggeva con le braccia una pila di tessuti talmente enorme che riusciva a malapena a guardare al di sopra. Quando il commesso che le batteva il conto le domandò che cosa se ne facesse, la donna rispose senza alcuna ironia: «Niente». Sorrisi alla donna dietro di me, che alzò le spalle e sentenziò: « Sa come dicono, chi muore con più stoffa vince ».
Ogni tanto, qualche ospite venuto a cena da noi chiedeva di vedere il mio studio. Si trattava quasi sempre di donne, benché talvolta anche gli uomini volessero visitarlo, e qualunque fosse la loro professione, rimanevano immobili in atteggiamento di apprezzamento stupito (gli uomini con le mani in tasca), e in genere dicevano soltanto: Uau! Che amassero cucire o no, semplicemente apprezzavano la vista di una stanza così ben fornita, che rispecchiava tanto fedelmente la passione di una persona. È un po' come per i negozi di ferramenta. Che si sappia o no che cosa sono le merci esposte, sono tutte lì.
Sul piano di lavoro ricoperto di flanella, alcuni fazzoletti vintage erano sistemati en pointe, un'idea per una trapunta ancora da realizzare. Avevo raccolto quei fazzoletti per anni. Vi erano registrate sopra delicate tracce di storia della società: motivi floreali degli anni Venti e Trenta, fazzoletti coordinati per signora e per uomini degli anni Quaranta, motivi bizzarri di tostapane fluttuanti e cagnolini scozzesi degli anni Cinquanta. C'erano disegni di foglie per l'autunno, renne e bastoncini di zucchero per Natale, cuori di velluto imbottito per San Valentino, ricami bianco su bianco con orlo largo in merletto per i matrimoni. In un angolo di un fazzoletto rosso scuro era ricamata la parola rossetto. Il mio preferito era uno dei più antichi, azzurro con il ricamo di un mazzolino di violette...non pensavo certo di usarlo, mi bastava guardarlo. Gli innumerevoli lavaggi, le stirature, le piegature, l'uso e le lacrime avevano consumato quei fazzoletti tanto da renderli soffici come polvere. Qualche volta prendevo in grembo la vecchia cappelliera nella quale li tenevo e semplicemente li scorrevo uno a uno, cercando di sentirne i ricordi.
Ero ansiosa di incominciare quella trapunta di fazzoletti, ma prima dovevo finire quella che mi era stata ordinata. Avrei montato i bordi, vi avrei ricamato delle perline sparse, e l'avrei foderata, orlata e impunturata a macchina quel giorno stesso. La mattina seguente, mentre andavo a prendere mia madre all'aeroporto, l'avrei spedita nel solito modo, avvolta in una custodia foderata in seta fatta con gli scampoli dei tessuti usati per la trapunta. I clienti andavano pazzi per quelle custodie. Per alcuni, era il piacere istintivo del ricevere un dono inaspettato. Ma probabilmente era anche la sorpresa di constatare che c'era ancora qualcuno disposto a fare qualcosa in più oltre al dovuto, senza aumentare il prezzo. II telefono squillò. Lo lasciai suonare…
Elisabeth Berg L’arte di ricucire ed. Corbaccio